01 mars 2007

Titus Burckhardt, La Parabola dell'arte moderna (frammento)

Natura non facit saltus. Ma lo spirito umano, sì. Tra la civiltà medioevale, incentrata nei misteri divini, e la civiltà del Rinascimento, incentrata nell'uomo ideale, esiste, nonostante la continuità storica, una cesura profonda. Un’altra e forse più radicale frattura si verifica nel secolo XIX. Fin allora l'uomo e il mondo circostante formavano, almeno praticamente e nell'ambito dell'arte che qui ci interessa, un insieme organico. Scoperte scientifiche allargavano senza posa, è vero, l'orizzonte di quel mondo, ma le forme comuni della vita erano pur sempre «a misura d'uomo», cioè a misura dei suoi bisogni psichici e fisici immediati. Era questa una sostanziale condizione dell'arte, risultante da uno spontaneo accordo tra lo spirito e la mano.

Con la civiltà industriale quest'unità organica si spezza: l'uomo si trova non più di fronte alla natura materna, ma alla materia morta, una materia che usurpa, sotto forma di meccanismi dotati di una sempre maggiore autonomia, le leggi stesse del pensiero. Così l'uomo, che aveva voltato le spalle alla realtà immutabile dello spirito, della «ragione» nel significato antico e medioevale del termine, vede ergersi contro di sé la sua propria creazione come una «ragione» esteriore, ostile a tutto ciò che l'anima e la natura hanno di generoso, nobile e sacro. L'uomo si è sottomesso a tale situazione: con tutta la sua nuova scienza dell'«economia», mediante la quale spera di restare il padrone, non fa che confermare e consumare la sua dipendenza dalla macchina. E la macchina è come la ridicola contraffazione di quell'atto creatore per cui un archetipo sovraformale si riflette in molteplici forme analoghe eppure mai uguali: essa invece produce un numero indefinito di copie strettamente uniformi. In questo modo l'arte è sradicata dall'humus che la nutriva; essa non è più il complemento spontaneo del lavoro artigianale né la naturale espressione di una vita sociale, ma è confinata in un terreno puramente soggettivo. E l'artista non è neppure più, come nel Rinascimento, una sorta di filosofo o di demiurgo: è soltanto un ricercatore solitario, senza principio né scopo, se non il medium o il buffone del suo pubblico. La crisi è scoppiata nella seconda metà del secolo XIX. Si ebbe allora, come in ogni grande svolta storica, un'improvvisa e fugace apertura su delle possibilità fondamentali: con il rifiuto del naturalismo, connesso ancora con 1'«antropocentrismo» rinascimentale, si riconobbe il valore delle arti «arcaiche»; si capì che un quadro non è una finestra fittizia sulla natura; che le leggi della pittura dipendono soprattutto dalla geometria e dall' armonia cromatica; che una scultura non è un corpo colto in pieno movimento e a caso, e trasformato in pietra o in bronzo; si scoprì la funzione della «stilizzazione», la potenza suggestiva delle forme semplici e l'intrinseca luminosità dei colori. In quel momento un ritorno a un'arte più integra, se non tradizionale, apparve possibile. Basta pensare a certi quadri di Gauguin o alle meditazioni di Rodin sulle cattedrali gotiche e sulle sculture indù. Ma l'arte non aveva più né cielo né terra. Non solo le veniva meno il substrato metafisico ma perfino la base artigianale, sicché fu costretta sfiorare rapidamente alcune possibilità che le si erano dischiuse e a ricadere in balia della pura soggettività individuale, e tanto più profondamente in quanto non le si imponeva più nessun linguaggio universale o collettivo. Poiché il cielo gli si era ormai chiuso e il mondo sensibile per lui non era più oggetto di adorazione, l'artista, ripiegato su se stesso, cercò nuove sorgenti di ispirazione e in taluni casi si aprì una strada verso la regione caotica del subcosciente. Così scatenò una nuova forza, indipendente dal mondo empirico, incontrollabile dalla normale ragione, e maliosa per contagio. «Flectere si nequeo superos, acheronta movebo»: se non posso piegare i celesti, muoverò gli inferi. Quel che sale dalle tenebre del subcosciente alla superficie dell’anima non ha davvero nulla a che vedere con il simbolismo delle arti «arcaiche» o tradizionali: non gli «archetipi» si riflettono in quelle elucubrazioni ma residui psichici della più bassa specie; non simboli ma spettri. Talvolta questo soggettivismo infraumano assume le caratteristiche «impersonali» della sua antitesi congenere: il «macchinismo». Nulla di più grottesco e sinistro di questi sogni-macchina; nulla di più rivelatore di certi fondi satanici della civiltà moderna.

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